D. - L'idea di questa conversazione, di cui la ringraziamo, nasce in fondo dal desiderio di confronto con la sensibilità e l'intelligenza di un giornalista che ha deciso, con lo spirito del cronista, di documentare un momento difficile della società americana, dopo l'undici settembre. Lo shock emotivo ha prodotto fragilità, precarietà, e molte risposte. Abbiamo sfogliato il suo libro, NY undici settembre. Diario di una guerra, e ne abbiamo apprezzato l'intensità del racconto. Per iniziare, Dott. Riotta, da dove nasce questa personale esigenza di raccontare tante storie individuali in un dramma che è anche, per definizione, dramma della società globale?
R. - La società globale non esiste se non come mosaico di vite individuali. L'orrore del terrorismo, dall'Irlanda al Medio Oriente all'Italia anni 70 a Bin Laden, è proprio il ritenere che il nemico sia omogeneo. Le Br sparavano ai poliziotti, brava gente che pagava il conto per lo Stato imperialistico delle multinazionali. Bin Laden ammazza lavapiatti poveri di Manhattan per castigare Bush. In Medioriente una studentessa ebrea o un bambino palestinese muoiono per scelte politiche su cui nessuno mai li ha consultati. Per questo il terrorismo non vince, mai. Nel suo carcere in Sud Africa Nelson Mandela matura quando intuisce che non tutti i bianchi sono mostri feroci. Da lì nasce la sua crociata vincente.
D. - Il tema dell'anti-americanismo è un punto cruciale della vicenda dell'undici settembre dove occorre prima o poi fermarsi a riflettere. La guerra fredda non c'è più, e sappiamo quali dinamiche hanno attraversato il pianeta nell'ultimo decennio. È molto interessante il risvolto che Lei coglie, tralasciando una chiave di lettura solamente politica e operando una concreta assimilazione tra il sentimento anti-americano e il razzismo. Cosa significa veramente? È un grido d'allarme o una denuncia?
R. - L'antiamericanismo francese ha radici nella diversità culturale di quel paese che risente il prestigio americano. Le Monde Diplomatique è “inzeppato di articolesse” che denunciano il complotto Usa, redatti da professori francesi emigrati negli Usa; l'antiamericanismo ispanico deriva dall'oppressione che per troppi anni i gringos hanno esercitato sull'America Latina. Il nostro da tre componenti: la destra diffida degli Usa per eredità fascista; i cattolici per residuo anticonsumista e antiprotestante e naturalmente per un filo di sospetto verso gli ebrei; la sinistra per eredità terzomondista e filosovietica. Generalizzo: ma se un afghano è ucciso da un afghano non frega in Italia a nessuno. Se è ucciso da un marine si va in piazza. Se la Cina o Cuba manda a morte un condannato si prende il cappuccino. Se muore un detenuto in America si va in piazza. Questa - e lo dico da anti pena di morte e critico severo di tante posizioni Usa - è ipocrisia.
D. - La società americana ha una storia di multietnicità e multiculturalismo che ne è connotato tanto essenziale che non sembra neppure possibile immaginarla diversamente. Eppure, il tema del razzismo e della discriminazione l'hanno spesso attraversata. Non ci riferiamo solo alla storica questione dei neri d'America, ma anche a quanto ad esempio accadde, dopo Pearl Harbor, nei confronti degli asiatici, per una reazione istintiva all'attacco giapponese. Cosa può cambiare nel rapporto tra il cittadino americano e lo straniero dopo l'undici settembre? Su quali basi cresceranno i modelli futuri di convivenza e con quali conseguenze anche per l'Europa?
R. - Gli Stati Uniti sul razzismo si sono divisi, hanno combattuto, hanno pagato prezzi di sangue. Oggi abbiamo alti ufficiali neri, giornalisti, politici, imprenditori. Tutto a posto? No, ma rispetto a 40 anni fa quando bianchi e neri non potevano far pipì insieme nel Sud passi da gigante. L'Europa? A parole siamo tutti solidali: ma quando vedo i parlamenti di Francia, Italia, Inghilterra, Germania, Spagna, società già multietniche vedo un oceano di maschi bianchi, punteggiato da qualche donna bianca. Che vorrà dire?
D. - Lei è convinto che l'occidente abbia commesso gravi errori non comprendendo che lo sviluppo e la pace sono le migliori garanzie contro il terrorismo e la violenza. Esistono tuttavia molti problemi nello scenario con una sola vera potenza mondiale. Uno di questi è il ruolo delle organizzazioni internazionali nei vari campi che costituiscono passaggi fondamentali dello scenario dei prossimi anni. Da questo punto di vista, quali sono le prospettive?
R. - Le do una risposta schematica ma che funziona: nessun problema può essere risolto al mondo senza il contributo degli Stati Uniti, ma nessun problema può essere risolto solo da loro. Gli europei hanno fallito nei Balcani per dieci anni, sono stati al rimorchio nella Guerra del Golfo, hanno fatto appena meglio a Kabul. Sono disposti a rinunciare a qualche pingue sussidio all'agricoltura per avere un esercito europeo? Se sì allora avranno voce in capitolo. Se no meglio partire per la settimana bianca.
D. - Molte questioni sollevate dall'undici settembre conducono alla strategicità del lavoro di intelligence nei nuovi conflitti. Un'intelligence che deve raccogliere la sfida del cambiamento, e raggiungere il risultato migliore in ordinamenti che devono comunque mantenere alto il profilo delle libertà e del rispetto dei diritti, valori che ne costituiscono l'etica e la ragione. Come vede il ruolo dell'intelligence negli anni futuri? Quali le sfide più impegnative?
R. - L'intelligence ha brillato durante la seconda guerra mondiale. Germania, Usa, Urss e Gran Bretagna hanno tutti segnato scoop clamorosi grazie allo spionaggio. Durante la guerra fredda il tutto s'è burocratizzato e - vedi caso Ames - si poteva parcheggiare una vettura di lusso nel parcheggio Cia dicendo: “l'ho pagata con un'eredità... e non con i soldi del Kgb”. L'intelligence in Afghanistan è dura, un conto è infiltrare un agente a Berlino, un conto è chiedere a un ragazzo di essere orientale, parlare dialetti oscuri come il pashto, avere famiglia là e vivere per anni come un capraio in montagna. Occorrono agenti alla base e che vengano da quelle culture: pena la cecità.
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